E’ passato poco più di un anno dal mio primo viaggio tutta da sola, dal mio primo viaggio in un altro continente, dal mio primo viaggio in America. Decisi di fare un viaggio simile perché per la prima volta mi sentivo abituata all’indipendenza e avevo voglia di abbracciare una realtà internazionale, in quella che nel mio immaginario era una città conosciuta, anche se non c’ero mai stata, e conosciuta come la città più importante del mondo: New York. Importante perché sempre all’avanguardia, per i suoi grattaceli, per i film che ho visto, per l’idea di potenza economica o non so cos’altro. Organizzare quel viaggio tutto da me mi ha donato della sicurezza interiore in più. Infatti qualche giorno prima di partire mi sono ritrovata per la prima volta una manicure perfetta, senza neanche un’unghia mangiata o una pellicina fuori posto, perché pensare al viaggio mi ha fatto scordare qualunque possibile motivo per essere nervosa e prendermela con le dita delle mie mani. Sono partita senza alcuna preoccupazione.
Primo volo intercontinentale
Mi sono imbarcata a Milano. Ero seduta accanto a una signora americana, mi disse che era di Brooklyn e tornava da una visita ad alcuni suoi parenti in Europa, che non aveva alcun interesse a viaggiare se non per andare a trovare i parenti, che dal cielo l’aveva colpita particolarmente Roma in quanto la vista dall’aereo le aveva permesso di osservare la sua distesa di monumenti, ma che non avrebbe mai speso i suoi soldi per venirla a visitare. Mi fece i complimenti per il mio coraggio perché stavo andando da sola nella sua città, e mi suggerì – non essere timida, e ti divertirai -.

Trovo affascinante che sia così facile ricordare un messaggio, anche quando non si ricordano più le esatte parole pronunciate, soprattutto nel caso di una lingua che non è quella che parliamo normalmente: non so più quali vocaboli di lingua inglese la signora abbia usato per regalarmi il suo suggerimento, ma quest’ultimo non lo dimenticherò.
Arrivo in aeroporto
Sono stata subito colpita da quell’atmosfera che sapeva di film americano, data dalla gente, o meglio dal personale dell’aeroporto, dalla pubblicità di benvenuto sul grande schermo mentre facevo la fila per il controllo dei documenti, e dalle voci che avevo intorno, nonché dall’aria d’avventura che sentivo di respirare, perché era la prima volta che mi trovavo sola all’estero. Ricordo quel sole del tardo pomeriggio illuminare attraverso grandi vetrate il mio volto e quello delle altre persone in fila, che mi ha fatto ricordare del fuso orario, senza che ne stessi soffrendo. Ero eccitata e al tempo stesso preoccupata: sarebbe andato tutto bene al controllo dei documenti? Sarei riuscita ad arrivare a destinazione?
Arrivo a New York
Mentre lasciavo l’aeroporto in treno ho potuto vedere una parte di Brooklyn, le case, i vicoli, gli studenti in strada all’uscita da scuola. Realizzai di essere veramente arrivata negli Stati Uniti, e da sola per di più. Dopo un paio di treni e una metro, un po’ di attesa e qualche question sulle indicazioni, si era fatto buio, ma intanto ero riuscita ad arrivare a Brighton Beach. Non avevo bisogno di chiedere indicazioni per raggiungere l’ostello, ma un tipo prese l’iniziativa di aiutarmi a far scendere la valigia dalle scale all’uscita della fermata della metro, e visto che c’ero gli chiesi dov’era la prima strada. Mi disse di prendere l’autobus e spiegò all’autista dove dovevo scendere. Mi ritrovai sulla quarta strada perché evidentemente qualcosa era andato storto nella mia pronuncia, così dovetti camminare a piedi più del previsto per raggiungere l’ostello.
L’ostello a Brighton Beach
Fu il mio primo ostello all’estero, ma non fu amore a prima vista. Chiusa la porta alle mie spalle mi ritrovai in una piccola casa con degli estranei, dei ragazzini che schiamazzavano. Il mio disagio poteva essere evidente. Non c’era nessuno alla reception, anzi non c’era reception, e non mi aspettavano neanche. Dopo un po’ capii che era una ragazza molto giovane a gestire gli ospiti, e mi accompagnò in stanza. Era uno spazio piccolissimo pieno di valige e quattro letti a castello. Una signora abbastanza anziana giocava con il cellulare a tutto volume e con la luce accesa, dovetti chiederle più volte di abbassare il volume. Ero leggermente scioccata per la quasi assenza di confort, ma mi interessava solo ricaricare il mio equilibrio sonno-veglia abbastanza per il mattino seguente. Già la mattina seguente cominciai ad apprezzare il posto, che creava un’atmosfera molto raccolta e familiare nel far convivere estranei d’ogni dove. La maggioranza dei guests erano russi, compresa la signora che giocava col telefonino accanto al mio letto, così come i gestori, e molti di loro erano in cerca di una sistemazione fissa in zona, nel quartiere russo-slavo di New York city. Io avevo scelto l’ostello più economico che avevo trovato online, non sapevo nulla della location. La stanza che avevo preso era mista, ed essendo l’ambiente così stretto questo mi ha fatta sentire un po’ a disagio all’inizio, soprattutto perché un coinquilino di Dubai era un po’ invadente. Comunque è proprio grazie a questo ambiente così raccolto che ho potuto scambiare tante chiacchiere e ascoltare discorsi di giovani di altri paesi, che mi hanno fatto conoscere tutte quelle cose nuove sul mondo in così pochi giorni, e ho potuto fare amicizia con Elody, di Parigi, che studiava per diventare assistente sociale e da sola era arrivata per girare negli States, e Folakemi, che credevo avesse una ventina d’anni e invece ne aveva trentacinque ed era un ingegnere che lavorava nelle finanze in Nigeria. Con loro sono andata in giro per la città, e ci siamo raccontate un po’ delle nostre vite. E’ questa quella che è stata la parte più interessante del viaggio.
Brighton Beach
Di Brighton Beach sapevo che aveva il lungo mare. Non l’ho visto subito. Manhattan aveva la precedenza. Comunque era un posto romantico al tramonto. Il mare era una tavola in quelle giornate di metà Ottobre, e anche la spiaggia, completamente spianata, evocava una sensazione di tranquillità. Una fila di ristoranti si affacciava sul lungo mare e c’era un parco giochi un po’ più avanti, anche piuttosto popolare, Coney Island, che non ho visto se non da chiuso, di notte, oltre le grate in modo da potermi offrire una suggestiva atmosfera da classico film horror, o forse da film su Batman.
A corredo di questa suggestione, mentre ero intenta a fare foto al panorama di giostre buie che erano visibili da lì, sentii qualcuno avvicinarsi alle mie spalle e mi voltai. Era un ragazzo che si era fermato per osservare anche lui oltre la grata. Forse era curioso di sapere che cosa stessi fotografando, comunque ritenne necessario tranquillizzarmi –I’m not mad– dato che mi ero voltata verso di lui. Con me c’era Folakemi, avevamo appena mangiato patatine fritte e hotdog di un grande fastfood della zona. Avevamo passato tutta la giornata insieme, ci eravamo fatte foto a sfondo newyorkese e stavamo rientrando passeggiando lungo la spiaggia. Era già trascorsa una settimana dal mio arrivo, lei sarebbe tornata a casa prima di me. Mi chiese di risentirci per scambiarci le foto una volta rientrate. Così qualche giorno dopo ci scambiammo i recapiti e tutt’oggi siamo in contatto.
Il quartiere era popolato soprattutto da russi, le insegne dei negozi erano in russo, e anche i prodotti dei supermarket erano russi. Così erano russe le mie colazioni e le mie cene. La mattina tanta gente camminava avanti e indietro lungo i marciapiedi della strada principale, dove passava anche la vecchia metro sopraelevata. Vedevo molte persone camminare da sole guardando per terra, pochi formavano dei gruppi e raramente qualcuno si fermava a salutare qualche conoscente appena incontrato per caso. Ciò mi ha colpita, perché sono abituata a considerare un quartiere di periferia come un luogo dove la maggior parte della gente risiede da molti anni e conosce la gente del posto. A Brighton Beach invece mi appariva intorno una realtà di libertà e solitudine, che non trovavo rassicurante. C’era un uomo che chiedeva l’elemosina cantando blues sul marciapiede, con voce calda, profonda e intonata. Mentre lo ascoltavo sentivo odore di marshmellow, o forse noccioline, o forse mostarda, nulla a cui fossi abituata comunque, e intanto una nebbiolina grigia saliva dall’asfalto. Tutte queste sensazioni mi richiamavano all’emozione di essere venuta finalmente negli Stati Uniti.
Manhattan
Il primo giorno a Manhattan camminavo a testa alta. Nel senso letterale del termine. Era importante per me far entrare per intero i grattacieli nelle mie foto, ed era piuttosto difficile. Ero interessata anche a fotografare ogni angolo o scorcio mi impressionasse, specialmente quando mi ricordava lo sfondo di una vignetta di un fumetto della Marvel, e iniziai a pensare che avrei potuto incontrare Spiderman. La voglia di esplorare a piedi mi portò in zone poco frequentate, e ad imbattermi in un rapper che mi disse – I know what you want baby! – mentre sorseggiavo acqua dalla bottiglia.
La prima meta che visitai fu il Ponte di Brooklyn. Lo percorsi tutto a piedi, andata e ritorno, forse perché ci avevo messo tanto per trovarlo, oppure perché dovevo pensare a cosa fare dopo, o semplicemente perché da lì potevo vedere la skyline, oppure perché volevo fare belle foto. Ma ricordo che iniziai a stancarmi di camminare.
La seconda tappa fu Ground Zero. Lo conoscevo già abbastanza bene avendolo visto in tv. Ho pensato alla tragedia e constatato che l’idea delle fontane come monumento commemorativo, dove l’acqua cade nel vuoto, sia perfettamente azzeccata. Un ragazzo mi ha fermata per strada mostrandomi delle foto della zona. Non ho capito cosa volesse, comunque mi ha mostrato delle foto dell’area e mi ha spiegato che la St. Paul’s Chapel, vicinissima al World Trade Center, è l’edificio più antico di Manhattan e fortunatamente non ha subito danni con l’attentato del 2001.
Subito dopo sono andata a vedere la Statua della Libertà da vicino. Mentre cercavo come arrivarci, ho preso un coffee caldo e mi sono seduta su una panchina, in un piccolo parco. Dei signori si sono seduti accanto a me e ho chiesto indicazioni. Così ho preso l’autobus giusto e sono arrivata alla stazione del traghetto dei pendolari che mi avrebbe permesso di vedere la statua da non troppo lontano. Mi sono però fatta convincere da alcuni operatori turistici abusivi, originari del Messico, del Ghana e di Napoli, ad acquistare uno dei loro biglietti per vedere il monumento più da vicino. Mi sono così ritrovata a scattare foto da un traghetto che girava su se stesso insieme a tanti giapponesi.
Nell’arco di quei dieci giorni a New York ho visitato molte altre cose. Sono andata a Central Park perché andava visto, e ci sono andata più volte perché è grande. Ogni volta scendevo ad una fermata della metro diversa per vederlo in diverse parti. È suggestivo lo stacco tra i grattacieli e il verde del parco, ma è pur sempre un parco non naturale, disegnato a tavolino da architetti e continuamente sottoposto a manutenzione. Ogni città dovrebbe avere uno o più spazi simili, perché rappresentano un enorme abbellimento per la città, un piacevole luogo di incontro per tutti ed un piccolo polmone. Comunque sono del parere che lasciare qualche spazio nel suo stato più selvatico possibile aumenti il valore di una città, a rappresentare l’aspetto più autentico del territorio. Certo, un parco urbano studiato e impiantato dall’uomo secondo i suoi gusti è comunque meglio che solo cemento. Nel parco ho cercato il giardino shakespeariano e sono passata sul sito commemorativo a John Lennon, ma vedere la statua di un cane celebrato come un eroe, Balto, mi ha quasi commossa.
Ho voluto visitare anche Prospect Park, a Brooklyn, e il suo orto botanico. Credo di aver scelto la stagione migliore per un giro nei parchi di New York, regalandomi un’esplosione di colori in tutti i toni caldi.
Una sorta di “non luogo” è Time Square. Passando di lì mi sono sentita al centro del mondo. Tutta quella gente, quelle luci in continuo movimento, e quel rumore di umanità possono rappresentare il paradiso per un essere umano che ama la vita sociale. Effettivamente, stare seduta sulla scalinata di “Piazza di Spagna” a Time Square e guardare gli schermi circondata da quella moltitudine di persone mi dava una sensazione di protezione, tutta quell’espressione di vita sociale mi rassicurava. D’altra parte, mi sentivo a disagio mentre cercavo di farmi avanti tra la folla, in me si faceva largo la paura di rimanere bloccata lì, e non riuscivo a nasconderlo. Infatti un tizio mascherato tentò di fermarmi per vendermi qualche scatto fotografico, ma notando la mia espressione mi lasciò andare con una battuta, del tipo “è solo una folla di persone, non morde”.
Una sera sono andata a vedere I Miserabili a Broadway, vicino Time Square, coronando il mio sogno di vedere il mio musical preferito. Per risparmiare sul costosissimo biglietto ho dovuto godermi lo spettacolo da lontano e il posto in quel teatro era piuttosto scomodo. Uscita dal teatro ho conosciuto un ragazzo. Mi è venuto incontro dal centro di Time Square dicendomi qualcosa che non ricordo, ma è bastato per intavolare una conversazione e sembrava simpatico. Abbiamo bevuto qualcosa da Starbucks intorno a mezza notte e siamo rientrati con la stessa corsa della metropolitana. Mi ha raccontato di essere uno studente di dottorato in fisica e di avere origini russe, prima di scendere qualche fermata prima della mia.

Cina Town è uno dei primi posti che ho visitato a New York. Lo considero il quartiere più affascinante. Al suo interno c’è Little Italy. In realtà c’è un po’ d’Italia sparsa quasi ovunque a New York, ci sono infatti molti locali con la bandiera italiana oppure con colonna sonora italiana. Un locale di un quartiere a nord di Brooklyn aveva messo Eros Ramazzotti e si poteva ascoltare già dalla strada. Quel quartiere era dedicato alla cucina mediterranea, perché i bar e i ristoranti italiani si alternavano a quelli greci.
New York è un museo a cielo aperto in quanto ad architettura contemporanea. C’è un percorso pedonale apposito per osservare gli edifici più all’avanguardia. Mi sono fatta una lunga passeggiata con la macchina fotografica appesa al collo. L’unico inconveniente, è lo smog che si respira.
Anche da sola, ho vissuto la magia della Manhattan notturna, del luccichio dei grattacieli e delle vetrate, e l’incanto delle vetrine. Visitare New York solo di giorno avrebbe significato vederla a metà. Qualche volta sono rientrata molto tardi. Dopotutto avevo la metropolitana sempre a disposizione. Una volta mi sono trovata a camminare verso l’ostello a passo molto spedito per paura degli homeless che stavano passando la notte nella stazione della metro. Erano circa le 4 del mattino ed ero stata ad un party nel Palazzo di Vetro come imbucata
Un amico stava svolgendo un tirocinio alle Nazioni Unite, e grazie a lui ho potuto visitare facilmente le aree accessibili dell’edifico. Sono andata a trovarlo più volte e per caso mi sono trovata a quella festa istituzionale in veranda. C’era molta gente, per lo più giovane, un concerto, free bouffet e open bar. Ero circondata da persone così socevoli, che è bastato sentirmi rivolgere una domanda casuale per trovarmi a conversare con diverse persone. Dalla veranda si vedeva la skyline di Long Island, e una studentessa mi disse che secondo lei quella era “The perfect view for a kiss“. Ho conosciuto un iraniano che mi disse di trovarsi lì per parlare di lavoro con un collega. Sembrava simpatico, ma ha convinta a ballare e mi ha scattato una foto con la skyline come sfondo, poi mi ha chiesto di rivederlo ma tra soli quattro giorni avrei lasciato New York.
Avendo studiato biologia all’università, il Natural History Museum è stata la mia prima meta tra i musei. Ho osservato affascinata tutte le istallazioni, per questo motivo sono stata lì dentro l’intera giornata, essendo il posto molto grande. Sono rimasta particolarmente colpita dalla ricostruzione degli organismi lungo la “linea” dell’evoluzione, ad occupare per intero la parete e parte del soffitto di una grande sala dedicata appunto all’evoluzione biologica. Credevo fosse innovativa, ma recentemente l’ho vista in un film degli anni ’80, dove Tom Hanks si imbatteva in “Una sirena a Manhattan” che veniva rinchiusa in un laboratorio del museo. Quell’istallazione c’era già.
Ho visitato anche il Moma e la National Gallery of Art, soffermandomi sulle immagini più familiari. E su quelle che sentivo stimolare la mia creatività. Ho anche scalato tutto il percorso a chiocciola del Guggenheim Museum, dove ho scoperto meglio il mio stesso paese. Infatti c’era un’esposizione dedicata ad Alberto Burri, con la sua arte astratta maturata dalle catastrofi. La mostra andava dall’astrattismo ispirato ai bombardamenti della guerra e terminava con una proiezione sul Cretto di Gibellina, città siciliana che fu distrutta da un terremoto. Tutt’ora non saprei nulla di tutto ciò, e quindi conoscerei meno il mio paese, se non fossi andata a New York. Le mie foto documentano visite anche in altri musei newyorchesi, ma comincio a non ricordare più bene tutti quelli in cui sono stata.
Visto che la mia guida tascabile lo consigliava, sono andata a visitare la sala della stazione Grand Central. Un signore, vedendomi fare foto, mi ha chiesto di dove fossi. Ogni volta che dicevo che ero “from Italy” tutti esclamavano meravigliati: “Italy? Beautiful!” facendomi, quasi, sentire fortunata per le mie origini, o meglio, speciale.
Nelle stazioni sotterranee della metro si esibivano sempre degli artisti amatoriali, spesso talentuosi. Anche in metro si poteva assistere a degli show interessanti. Dei ragazzi salivano a bordo per dare vita a spettacoli hip-hop, o qualcosa del genere, si arrampicavano sulle sbarre per i passeggeri e roteavano come se la metro non fosse in movimento e non ci fosse gravità.
Ho trascorso dieci giorni a New York city. Inizialmente avevo intenzione di visitare anche altre città vicine, ma avevo molto da scoprire lì. Il mio viaggio comunque è proseguito, on the road, per attraversare tutto lo stato di New York, seguita da un bosco dalle tinte del rosso e l’arancione. Mi aspettava un viaggio di dieci ore, quasi l’intera giornata seduta in un pullman, ma non è stato per me motivo di disagio. Anzi, per dieci ore, comodamente seduta, guardando un po’ il paesaggio fuori e un po’ la gente attorno, mi sono nutrita di avventura, e l’avventura più eccezionale era sentirmi libera, perché non avevo programmi imposti da qualcun altro. Sola e lontana da casa, diretta verso una nuova meta, mi sentivo bene. La mia prossima tappa sarebbe stata Niagara Falls…
To be continued… !!
[…] dove. Consideravo New York una tappa obbligata da vedere almeno una volta nella vita (della sua esperienza a New York Silvia ne ha parlato nel suo blog, […]
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[…] strade con negozi, e contemplavo le lapidi dell’ottocento nei cimiteri delle piccole chiese. Ormai ero abituata a girare da sola, tanto che iniziai ad annoiarmene. E a fare […]
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